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Heidegger e il nazismo 2.0 | Kasparhauser XII
A cura di Marco Baldino



Quello che più mi spaventa.
L’antisemitismo di Heidegger e il ritorno a Sion
di Michael Fagenblat

(Traduzione di Paolo Rizzi)

18 novembre 2015


Ma la cosa che più mi ha spaventato è stato quando il nemico si è avvicinato
E ho visto che la sua faccia sembrava la mia

Bob Dylan, John Brown [1]


Dio parla chiaro in versi contorti, dice un vecchio proverbio. Questo significa che senza Dio siamo destinati a vite contorte? W. H. Auden pensava che non fosse una cosa poi tanto brutta dato che l’era moderna richiede un Nuovo Grande Comandamento: “Ama il tuo contorto prossimo / con il tuo contorto cuore”. Martin Heidegger, il più importante filosofo europeo del ’900, invece dubitava che si potesse fare del bene dalla disonestà, [2] sostenendo che senza Dio siamo abbandonati solo all’Essere e in debito solo con l’Essere. Le nostre vite contorte non sono lì per essere raddrizzate. Provarci è tradire l’Essere, proiettare “valori” antropologici sull’Essere e quindi mantenere una visione del mondo essenzialmente teologica in cui l’umanità svolge il ruolo di Dio. Per approcciare la nuova epoca dobbiamo capire che non è morto solo Dio ma anche ogni concetto dell’umanità a immagine di Dio. Subordinare l’Essere a principi morali o politici, tanto quanto alla fede religiose, è tradire l’Essere e quindi ingannarci su cosa realmente siamo. L’Essere non si dà in conformità a ragioni, leggi o calcoli, non rivendica diritti sotto forma di principi, valori o imperativi categorici. L’Essere si dà in maniera ribelle, selvaggia e infondata. Dato che l’Essere è ribelle e errante anche noi, se siamo leali verso l’Essere, siamo destinati a vagare dove vaga l’Essere. Heidegger quindi ha proposto che la nostra verità sia l’errare, più vicini siamo all’Essere più vagabondiamo là dove non ci sono principi a guidarci. Questa è un modo per spiegare il coinvolgimento di Heidegger nel Partito Nazista: “Grandi pensieri, grandi errori”, come disse lui stesso.


LO “SLEGATO ASSOLUTO”: SULL’ANTISEMITISMO METAFISICO DI HEIDEGGER, O DEL “RUOLO DELL’EBRAISMO MONDIALE” NELLO “SRADICAMENTO DI TUTTI GLI ENTI DALL’ESSERE”

Il coinvolgimento di Heidegger nel partito nazista non è una scoperta recente, ma la pubblicazione nel marzo di quest’anno dei Quaderni neri ha rinnovato il dibattito. [3] Il filosofo aveva stabilito che i quaderni, diari scolastici dalla copertina nera, scritti tra il 1931 e il 1941, fossero gli ultimi volumi a essere pubblicati tra i 102 tomi della sua opera omnia. Qualcuno potrà addirittura rimanere deluso, dato lo stimolo degli appetiti suscitati, che su più delle 1200 pagine che compongono i tre volumi dei Quaderni neri solo pochi passaggi, in totale circa due pagine, diffamino gli ebrei e la “giudaizzazione” [Verjudung] del mondo. Questa scintilla piccola ma potente è stata sufficiente a scatenare un nuovo incendio, dando il via a un nuovo giro di denunce e difese in Germania e soprattutto in Francia, ma anche in America. [4] Ci sono, in ogni caso, due caratteristiche che, pur non essendo delle novità, risaltano nei Quaderni neri.

La prima riguarda la qualità populista, volgare, dell’antisemitismo di Heidegger che assomiglia al discorso triviale [Gered] in cui das Man indulge inevitabilmente nell’inautentica esistenza quotidiana. [5] Questo si sapeva da tempo, almeno da quando Karl Jaspers rievocò che al suo rifiuto dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion in quanto falsi, Heidegger rispose: “nondimeno c’è una pericolosa alleanza internazionale degli ebrei”. [6] I Quaderni neri confermano l’antisemitismo popolare di Heidegger, per esempio: «L’Ebraismo mondiale, diffuso dagli emigranti a cui viene permesso di lasciare la Germania, è pervasivo ed impalpabile, usa tutto ciò che è in suo potere per evitare di partecipare ad azioni militari mentre ciò che rimane a noi è di sacrificare il miglior sangue del meglio del nostro popolo» (GA 96, p. 262).

Nella visione di Heidegger l’ebraismo è complice dei peccati capitali dell’età moderna, “razionalità vuota e efficienza calcolatrice”; può quindi solo simulare di partecipare allo “spirito” [Geist] mentre nei fatti l’Ebraismo mondiale non è capace di accedere alle sfere decisionali [Entscheidungsbezirke] appartenenti alle “fondamenta della verità dell’?Essere” (GA 96, p. 46). Il risultato della mentalità calcolatrice ebraica è una triste ipocrisia: anche se gli ebrei hanno sempre vissuto in base al “principio della razza” si oppongono alle teorie razziali del nazismo. L’antisemitismo di Heidegger raggiunge qui il nadir. Gli ebrei sono criticati per eccellere nel Machenschaft, la manipolazione volontaria dell’essere che, egli suggerisce, porta ai programmi di riproduzione razziale e all’eugenetica. L’ebraico “talento per il calcolo” viene pertanto visto come complice della causa radicale dell’antisemitismo razziale, di cui gli ebrei coevi subivano persecuzione (GA 96, p. 56). Gli ebrei promuovono la macchinazione in cui il concetto di “vita” è trasformato in “ciò che si può allevare, che è un tipo di calcolo” e quindi sono essi stessi da incolpare per il pensiero razziale che ipocritamente denunciano (GA 96, p. 56). [7]

Eppure Heidegger rifiuta inequivocabilmente il pensiero razziale che risulta dalla Machenschaft, che sommerge gli enti nell’età moderna. Gli ebrei, suppone, partecipano alla razionalità calcolatrice della metafisica moderna non per via di qualche determinazione razziale, ma perché sono alienati dalla loro concreta esistenza storica, dalle sfere di decisione dell’Essere. L’immagine dell’esistenza ebraica che Heidegger disegna ambiguamente nei Quaderni neri è un circolo insieme vizioso e tragico: disconnessi dalle sfere decisionali fondate negli specifici modi di manifestarsi dell’Essere (in particolare, come verrò suggerendo, una terra e una lingua propri), gli ebrei sono diventati gli esponenti esemplari e di punta di una razionalità vuota e del pensiero calcolante che globalizza l’alienazione nell’età moderna, inclusi i modi razziali di determinazione dell’umanità. Gli ebrei, quindi, promuovono un tipo di pensiero che crea l’antisemitismo che subiscono.

Da cui la seconda caratteristica dell’antisemitismo dei Quaderni neri: l’antisemitismo popolare di Heidegger si adagia in una posizione filosofica o meta-filosofica. Gli ebrei manifestano in maniera particolarmente acuta i sintomi di un razionalismo senza radici (questo è antisemitismo popolare) ma non ne sono la causa e neanche una causa (questo è un problema filosofico riguardante la storia dell’essere). In altre parole, c’è una relazione fenomenologica o tipologica tra la mentalità dell’“Ebraismo mondiale” e il razionalismo occidentale moderno ma non una relazione storica, causale o biologica. I principali problemi che assediano l’Essere sono il cartesianesimo (soggettivismo), il neo-kantismo (liberalismo e idealismo) e lo scientismo (riduzionismo, Machenschaft e tecnica). Gli ebrei hanno adottato per se stessi questo falso-Geist e svolgono un ruolo cruciale, ma in nessun modo esclusivo, nel globalizzarlo. Heidegger non specifica perché, se non è una questione di determinazione razziale, siano gli ebrei in particolare a essere afflitti da questa mentalità calcolatrice. Ma nelle sue lezioni del 1933-34 suggerì che i “nomadi semiti” sono costituzionalmente incapaci dell’esperienza del radicamento in un luogo. [8] Si può quindi concludere che l’antisemitismo filosofico di Heidegger, molto più interessante del suo antisemitismo popolare, corrisponda a una visione dell’Ebraismo mondiale come mancanza di una terra e di un linguaggio propri, nel suo essere “nomade”, vale a dire “senza radici” nel ramificato senso filosofico che Heidegger attribuisce allo sradicamento.

In questo modo l’antisemitismo di Heidegger assomiglia alla normale propagande nazista, e in verità ne fa parte a suo modo, e al tempo stesso nega le categorie razziali che contraddistinguono il nazismo. È, era, un antisemitismo privato e metafisico, non semplicemente un antisemitismo volgare, razziale. “Ebraismo mondiale” non è una categoria razziale ma un principio “metafisico” che significa lo sradicamento e l’omogeneizzazione dell’Essere nel mondo moderno. «Le questione del ruolo dell’Ebraismo mondiale [des Weltjudentums] non è razziale, è piuttosto la questione metafisica della natura di un tipo di umanità [Menschentümlichkeit], l’assolutamente sradicato [schlechthin ungebunden], che può assumere il “compito” storico-mondiale di sradicare [Entwurzelung] tutti gli enti dall’Essere» (GA 96, p. 243; cfr. p. 121). L’Ebraismo-mondiale rappresenta il movimento metafisico al lavoro per lo sradicamento del mondo moderno. Gli ebrei non sono semplicemente un popolo sradicato ma l’avanguardia dello sradicamento del mondo che caratterizza l’epoca moderna. Mancando di una terra e di una lingua propria, gli ebrei introducono il pensiero calcolante che omogeneizza l’Essere convertendolo nelle valute globali dell’individualismo, del capitalismo e della tecnica in cui le specificità concrete dell’Essere scompaiono. Le alternative politiche contemporanee (sia il liberalismo che il comunismo) riducono l’umanità a uno standard uniforme, le economie capitaliste considerano qualunque cosa solo per l’astratto valore di scambio e la tecnica moderna è basata sulla replicazione e la produzione in massa che erodono la specificità delle cose. Per Heidegger lo sradicamento è allo stesso tempo la causa di un tipo di pensiero astratto e calcolatore e una delle maggiori fonti del nichilismo moderno in cui l’Essere [Seyn] è obliato, l’autorità e il significato sono diventati piatti, astratti e strumentali e la convenienza governa le nostre relazioni con qualunque cosa. Anche se sono stati i cristiani razionalisti ad aver messo in moto la metafisica dello sradicamento, i Quaderni neri confermano che per Heidegger l’“Ebraismo mondiale” svolge un ruolo importante nel globalizzarlo. In questo senso Heidegger associa la sua diagnosi del generale sradicamento e alienazione del Geist che segna il razionalismo contemporaneo e il Machenschaft al processo di “giudaizzazione”, Verjudung, come lo chiama già dal 1929. [9]

Non sarebbe difficile contestare la visione della “Weltjuden” di Heidegger e il suo ruolo putativo nell’internazionalizzare lo sradicamento della metafisica moderna. Non di meno, i passaggi antisemiti chiariscono che Heidegger ingloba l’antisemitismo nella propria filosofia soddisfacendo la necessità del Man — incluso der Mann Heidegger selbst — per figure ontiche che storicizzino lo sradicamento (e con questo danno un nome al nemico) dell’Essere. Per quanto moralmente e intellettualmente terrificante questo è abbastanza diverso dal dire che la filosofia di Heidegger sia guidata da, o addirittura dipendente dall’antisemitismo. Nei Quaderni neri l’antisemitismo ontologico e idiosincratico di Heidegger appare come un effetto della Seinsgeschichte, della storia dell’Essere come egli la interpreta. L’“Ebraismo mondiale” è un “facente funzioni” che altre figure possono sostituire a loro modo (per esempio il cartesianesimo o il neo-kantismo). In realtà la dimensione filosofica dell’antisemitismo di Heidegger si può già intravedere in Essere e tempo dove, nel corso di una devastante critica della morale kantiana, il razionalismo calcolante, che questi le attribuisce, è denunciato come un tipo di “fariseismo”. [10] Questo visione dell’antisemitismo di Heidegger come “facente funzioni” non è motivo di conforto, dato che suppone che il pensiero di Heidegger necessiti dell’individuazione di un qualche nemico speciale dell’Essere che debba essere poi distrutto, chiunque esso sia. Che questo rinforzi l’antisemitismo cristiano-europeo volgare e popolare dal nuovo punto di vista della storia dell’Essere non fa altro che aumentare i problemi. Quantomeno ci permette però di comprendere perché l’Antisemitismo di Heidegger sia al tempo stesso filosoficamente significativo e volgare.


“UNA POSIZIONE FILOSOFICA CHE È PRECISAMENTE LA NOSTRA POSIZIONE”

Fin dall’inizio Heidegger è stato circondato da una cerchia di giovani e brillanti pensatori ebrei laici. [11] Ma è stato Franz Rosenzweig il primo a notare l’affinità elettiva tra il pensiero di Heidegger e l’esperienza della teologica ebraica. In uno degli ultimi scritti prima della sua morte prematura nel 1929, Rosenzweig rimarcava l’“ironia di una storia intellettuale” in cui Heidegger emerge come l’esponente più appassionato e articolato di “una posizione filosofica [che è] precisamente la nostra posizione”. [12] Come il progetto di Rosenzweig di fornire un resoconto filosofico dell’“essere irrazionale”, il pensiero del primo Heidegger fornisce un resoconto del nostro concreto accesso pre-categoriale all’essere. [13] Nel 1942 Karl Löwith, tra i più importanti allievi di discendenza ebraica di Heidegger, riprende l’affermazione di Rosenzweig per esaminare “l’impressionante somiglianza” tra i pensatori ebrei e il suo maestro, mentre quest’ultimo, senza che all’epoca ci fossero dubbi, sosteneva il partito nazista. Nonostante numerose condivise preoccupazioni generate dalla comune profonda convinzione che la filosofia dovrebbe essere fondata sulla consapevolezza della mortalità come esperienza individuante per eccellenza, Löwith conclude che Rosenzweig e Heidegger dissentivano sulla possibilità ultima della “verità eterna”, negata dalla filosofia di Heidegger e difesa dalla teologia di Rosenzweig. [14] Peter Gordon, tuttavia, ha contestato le conclusioni di Löwith mostrando come Rosenzweig è meglio letto come un pensatore della finitezza, della “eternità senza metafisica” in cui il desiderio di redenzione è pienamente temporalizzato nel mondo. [15] La Stella della Redenzione supera le distinzioni tra teologia e filosofia, come sottolinea Rosenzweig, temporalizzando l’eternità nella vita storica del popolo.

Seguendo Rosenzweig, altri teologi ebrei hanno lavorato al fondamento comune tanto alla filosofia di Heidegger quanto al resoconto fenomenologico dell’esistenza ebraica. Un punto sottolineato da Heidegger meglio che da chiunque altro prima di lui è che l’“identità” di un individuo è una questione di dinamiche sociali, di relazioni storiche e pragmatiche che eccedono lo scopo della riflessione, che comprendono le condizioni elementari di tutta l’esperienza intellegibile, “soggettiva” e “oggettiva”. Ecco finalmente un’“ontologia” che rende il senso dell’essere ebreo. Dietro i valori dell’umanesimo illuminista, con la sua idea che le persone sono uguali per virtù di una razionalità che trascende la propria nascita mondana, Heidegger mostra come la nostra esperienza del mondo e la nostra capacità di comprendere noi stessi sia basata su condizioni contingenti, passive, oscure e insormontabili. Durante la sua detenzione come prigioniero di guerra francese, Emmanuel Lévinas cominciò ad adattare l’intuizione di Heidegger chiedendosi se si dovesse considerare la passività “Partendo dal Dasein o dal G[iudaismo]”. [16] Questo ha permesso a Lévinas di distinguere la passività dell’essere gettato [Geworfenheit] da quella della creaturalità, dell’elezione e della filiazione. Quindi con Lévinas, in parte proprio a causa dell’antisemitismo di Heidegger, l’affinità tra la versione di Heidegger della passività come Geworfenheit e la passività ebraica diviene il luogo del riconoscimento e della distinzione. [17] Questo adattamento è però basato sull’adozione fondamentale della prioritarizzazione ontologica del “noi” sull’“io” di Heidegger, la sua versione antiliberale e antindividualista dell’esperienza fondamentale di essere se stessi.

Alexander Altmann (1906-1987), pioniere dei rabbini ortodossi e fenomenologo destinato a diventare uno dei più importanti studiosi americani di storia intellettuale ebraica, ha letto avidamente Heidegger a Berlino prima di essere costretto a fuggire nel 1938. In un saggio pubblicato nel 1933 Altmann tenta di illustrare “la struttura di significato di una teologia ebraica che deve essere concretizzata” come se anche lui, come Lévinas e Rosenzweig, volesse specificare gli “existentialia” dell’ebraismo, ciò che Essere e tempo descriveva come la “struttura esistenziale” che “precede ogni psicologia, ogni antropologia e soprattutto ogni biologia”. [18] La risposta di Altmann è che “due fenomeni, rivelazione e appartenenza a un popolo” forniscono gli elementi irriducibili di ogni teologia ebraica. Questo argomento veniva sollevato contro la caratterizzazione della fede ebraica promossa dal suo contemporaneo Hans-Joachim Schoeps che rigettava la Legge in quanto nessun singolo ebreo poteva trovare la Legge nella sua più propria relazione con Dio. [19] In sintonia col progetto (ispirato dalla teologia dialettica di Barth) di sottrarre la teologia della rivelazione dalle grinfie dello storicismo e del legalismo, Altmann nondimeno rimproverava Schoeps d’essere troppo individualistico e di essere troppo frettoloso nel rigettare la Legge nella sua (troppo protestante) ricerca di un accesso non mediato alla rivelazione della scrittura. [20] La legittimità teologica della legge ebraica, sostiene, non deriva direttamente dalla Scrittura, né dai processi esegetici formali, né da una istituzione sacra come la Chiesa, né dagli affari puramente locali della sinagoga o della comunità. Piuttosto è l’elemento fondamentale delel’esser parte di un popolo (“il popolo intero”) che autorizza la legge: “le persone, in quanto immediato collegamento correlazionale con Dio, sono il soggetto della teologia [ebraica]”. [21]

Avendo fondato l’autorità halakhaica nella vita del popolo, Altmann invoca esplicitamente i concetti di Heidegger di “eredità” [Erbe] e “destino” [Schicksal] come “decisivi per comprendere l’esistenza ebraica” perché, a differenza della teologia dialettica ebraica liberale, abbracciano “ciò che è ebraicamente specifico nella situazione spirituale degli ebrei”. [22] Anche Altmann non si limita ad adottare i concetti di Heidegger ma li adatta alla sua critica della teologia dialettica ebraica liberale. Per l’ebreo, eredità è la rivelazione (Torah) data al popolo nel suo complesso e destino è la provvidenza che si manifesta storicamente nella vita del popolo. La svolta heideggeriana rimane però decisiva: solo attraverso le specificità dell’eredità e del destino ebraici si può addurre la “tragica singolarità” dell’esistenza ebraica. [23] Pochi mesi dopo che Altmann fece uso dei concetti heideggeriani di destino e di eredità per una definizione dell’esperienza ebraica, Heidegger esplicitò la sua posizione filosofica a sostegno al nazismo: “il destino della nazione in mezzo a tutti gli altri popoli,” proclamò nel Rektoratsrede, attualizza “la storica missione spirituale del popolo tedesco come popolo che conosce se stesso nel proprio stato”.

Altmann, uomo devoto e virtuoso, era a sua volta favorevole alla prospettiva secondo cui il destino del popolo ebraico è quello di attualizzare se stesso nel proprio stato. [24] In un periodo in cui il sionismo era ancora marginale nei circoli ortodossi moderni, Altmann lamentava, in tono chiaramente fenomenologico, come le condizioni dell’esilio [Golah] rendano la teologia ebraica “invisibile” e quindi le impediscano di raggiungere la “la piena realtà nel mondo”. [25] Solo il ritorno a Sion sarebbe adeguato per il “confronto” fra tradizione e modernità dato che solo esso permetterebbe alla “realtà organica dell’appartenenza a un popolo in Palestina” di svilupparsi. [26] Altmann specifica tre caratteristiche di questa realtà organica: la lingua ebraica, il paesaggio biblico e la fluidità della vita ebraica “che non può essere governata dalla dialettica”. Auspicando una relazione tra vita e legge che eccedesse il lavoro riflessivo della dialettica Altmann pose l’enfasi sulla “halakhah [legge] delle decisioni collettive”. [27] Questa posizione, contro i metodi formalistici e le loro applicazioni procedurali da parte di rabbini esperti, favorisce la garanzia delle priorità giurisprudenziali dell’esistenza collettiva storica del popolo che concretamente anima e forma la legge. In questa maniera la versione di Altmann della priorità ontologica dell’appartenenza a un popolo genera la stessa capacità che Heidegger trova completamente assente nell’ebraismo, cioè, l’accesso alle sfere decisionali [Entscheidungsbezirke] da cui la verità del suo essere si manifesta. Inoltre, come nota Altmann, questa priorità ontologica del popolo, come potere che produce autorità e decide sulla legge, è anche ciò che rende la stessa rivelazione “essenzialmente un «sistema aperto»”, a cui corrisponde l’indeterminatezza del Talmud come la sua propria “forma e concezione”. [28]

Per Heidegger l’Ebraismo mondiale è tagliato fuori delle sfere decisionali dell’essere perché è sradicato e nomade, senza una lingua e una terra propria e quindi si rifugia nelle modalità calcolatrici del pensiero astratto. Al contrario, Altmann propone che l’appartenenza a un popolo fornisca all’ebraismo questo accesso. È l’“appartenenza a un popolo” — e non l’esegesi formalistica (“farisaica”), o il dogma reificato, o un’istituzione intermedia come la Chiesa — che esercita “una funzione attualistica-decisionale”. [29] Non sono la legge, le autorità legali o le procedure interpretative a produrre l’autorità; piuttosto questi possono essere “significativi solo sulla base del pensiero halakhaico e dell’appartenenza al popolo creatrice d’autorità. L’atmosfera halakhaica di questa appartenenza produce l’autorità e riceve, in cambio, la decisione dell’autorità a cui si inchina in quanto appartiene alla propria essenza”. [30] Nello stesso momento in cui Heidegger meditava sullo sradicamento dell’Ebraismo mondiale, Altmann, ispirato dalla concreta ontologia ermeneutica di Heidegger, sosteneva che la potenza di essere un popolo-nella-sua-totalità, essere radicato l’uno nell’altro, in un’eredità e in un destino condivisi, permettesse agli ebrei di accedere alle sfere decisionali del loro essere per poter rendere visibile la loro verità non universale (teologica). Per questa stessa ragione Altmann sosteneva il ritorno a Sion, alla terra dove l’halakhah delle decisioni collettive sarebbe stata visibile al mondo in modo che la verità o teologia ebraica potesse raggiungere “una realtà in cui, infine, lingua e spirito coincidano”. [31] Altmann, un uomo gentile con una compassione immensa per gli altri ebrei e per tutte le persone create a immagine di Dio, mette in luce che un’autentica co-storicizzazione dell’esistenza ebraica in Sion è l’unica via per il popolo ebraico di accedere alle sfere decisionali che manifestano la propria verità teologica e il proprio destino. [32]

Come giovane rabbino ortodosso iscritto all’Università di Berlino, Altmann fece amicizia con un altro giovane rabbino, Joseph Soloveitchik, discendente da una straordinaria dinastia di virtuosi rabbini lituani, che sarebbe presto emigrato negli USA e divenuto “il rav” dell’ortodossia moderna, guidandone il notevole rinascimento durante la seconda metà del Novecento. Altmann e Soloveitchik erano strettamente legati dallo studio della filosofia e dalla discussione quasi quotidiana delle sue relazioni con il giudaismo tradizionale. Soloveitchik, coerentemente con il metodo “Brisker” di studi talmudici, sviluppato dai suoi avi, considerava la halakhah come un sistema che favorisce l’“oggettivazione” e prendeva posizione critica nei confronti delle interpretazioni antirazionaliste della spiritualità ebraica. In una nota a piè di pagina di Halakhic Man, la sua classica esposizione del ruolo della coscienza halakhaica nella formazione dell’autocomprensione ebraica, scritta in ebraico nel 1944, Soloveitchik denuncia la “falsità autoevidente” dell’«intera aspirazione romantica alla fuga dal dominio della conoscenza, della ribellione contro l’autorità della cognizione oggettiva e scientifica che fonda la sua espressione nella… scuola fenomenologica, esistenzialista e antiscientifica di Heidegger e della sua cerchia, dalle cui fila sorgono varie forme di santificazione della vitalità e dell’intuizione» che «hanno portato caos completo e depravazione nel mondo. E fatto sì che siano gli eventi di quest’epoca a costituirne la prova!». [33]

L’oggettivismo halakhaico di Soloveitchik e la sua cautela rispetto a tutto ciò che è romantico, in ogni caso non inibiscono il suo desiderio esistenziale-teologico per il destino manifesto del popolo ebraico nella storia. Rompendo con l’antipatia teologica della sua famiglia nei confronti del sionismo politico, Soloveitchik fiancheggiò il movimento Mizrachi che dava significato religioso alla fondazione dello Stato di Israele e divenne un influente sostenitore, una guida, del sionismo religioso. Come Altmann, la versione del significato religioso del sionismo ricalca, in Soloveitchik, la discussione di Heidegger dell’autentica co-storicizzazione del popolo. In un messaggio per il Giorno dell’Indipendenza di Israele del 1956, Soloveitchik analizzò il linguaggio erotico del Cantico dei Cantici interpretandolo come espressione del desidero del popolo ebraico per la propria terra e un proprio stato. La distinzione saliente che Soloveitchik sviluppa è quella tra un “patto di fato” che lega “il popolo” e un “patto di destino” che unisce “la nazione”. [34] Mentre il fato, rappresentato dall’olocausto e dal sionismo laico, era imposto al popolo di Israele, il destino è un’impresa religiosa per appropriarsi del ritorno a Sion, diventando una nazione santa nella propria terra. Qui, io penso, abbiamo un’analogia con la distinzione heideggeriana tra “storicità inautentica” di un popolo, determinata da eventi disparati che gli accadono, e il “destino” di un popolo, capace di raccogliersi appropriandosi della propria eredità spirituale per manifestare nuove possibilità di esistenza storica. [35] Per quanto apparentemente avverso ad alcuni concetti caratteristici di Heidegger, guardando al concetto di Soloveitchik di sionismo religioso come destino spirituale-storico del popolo ebraico, ritroviamo un tono heideggeriano. [36]

Questo tono si può estendere prendendo in considerazione un ampio spettro di caratteristiche del pensiero di Heidegger che una fenomenologia dell’ebraismo dovrebbe includere. Per farlo adeguatamente servirebbe un progetto più grande e complesso. In questa sede dovrà essere sufficiente un’illustrazione delle convergenze principali. Leo Strauss, che studiò con Heidegger in Germania, aveva già identificato “gli elementi biblici nel primo pensiero di Heidegger” come fonte dalla disaffezione di Heidegger verso “le limitazioni del razionalismo occidentale” ed espresso la propria ammirazione per come egli avesse dispiegato questi elementi biblici, rigettando la versione dogmatica cristiana delle verità eterne e della moralità divina. [37] In verità ci sono molti elementi biblici nel pensiero di Heidegger e non solo nei primi lavori. Per esempio, Heidegger ha sostenuto che il tempo non è una sequenza omogenea di ora o una immagine dell’eternità in movimento ma un’eruzione concreta del futuro nel presente che sconvolge il passato e quindi genera possibilità imprevedibili, come un evento messianico. Com’è ben noto oggi, Heidegger ha sviluppato questa versione della temporalità attraverso un’interpretazione fenomenologica dell’escatologia paolina. La deformalizzazione del tempo richiesta dalla svolta verso “il Come dell’afferrare la realtà” è stata per la prima volta esposto nella testimonianza di San Paolo sull’attesa collettiva per la parusia. Come ha però notato Heidegger, “la direzione di base dell’escatologia è già tardo-giudaica, [essendo] la coscienza cristiana una trasformazione particolare di questa”, che, inoltre, “è stata occultata dalla [successiva] cristianità”. [38] Questo tempo “kairologico” diventò, nel corso degli anni ’20, il modello per il pensiero heideggeriano della concreta temporizzazione dell’essere.

Leora Batnitzky ha notato che la nozione heideggeriana per cui “l’Essere rivela se stesso nel linguaggio” è una nozione che “i filosofi ebrei definirebbero come fondamentalmente «ebrea»” [39] e suggerisce che i moderni pensatori ebrei come Rosenzweig, Buber, Heschel, Lévinas e Derrida sviluppano filosofie del linguaggio che condividono aspetti distintivi con la posizione di Heidegger e al tempo stesso si distinguono dalla tradizionale visione filosofica del linguaggio come modo per rappresentare il mondo. Per Heidegger, le parole non sono segni strumentali che trasparentemente designano cose ma sono esse stesse cose (come nel devarim biblico), presenze che rivelano l’essere. Si comincia a capire perché Elliot Wolfson abbia fatto un uso estensivo di Heidegger nelle sue ricerche sul linguaggio cabalistico. [40] La subordinazione heideggeriana della corrispondente teoria della verità allo “svelamento” di un evento che rivela l’Essere dal suo occultamento è una nozione complessa e anche oscura, ma l’eco di nozioni bibliche e cabalistiche, forse attraverso la mediazione di Schelling, è abbastanza chiaro. Allo stesso modo Heidegger sostenne — come il pensiero tradizionale ebraico — che il pensiero è saturato dall’interpretazione e quindi concepiva la filosofia come una serie infinita di commentari che dimenticano, ripristinano e spiegano una verità originale, come fa la tradizione ebraica dei commentari. Nelle sue opere più tarde ha proposto che il pensiero non è principalmente logica e rappresentazione ma ringraziamento e memoria, come sottolinea la preghiera ebraica. Heidegger descrive anche la capacità della poesia di scoprire la chiamata dell’essere in una maniera che richiama chiaramente le testimonianze profetiche della parola di Dio, nella stessa maniera in cui Rashi, che si può indicare come la più normativa delle autorità esegetiche ebraiche, descrive la profezia come “Dio che parla col Sé Divino” mentre il profeta “ascolta” (Num. 7:89 ad. Loc.). Infine, si può menzionare l’imperativo metafilosofico di un nuovo pensiero che non è né occidentale né orientale ma qualcosa che è al tempo stesso originario e ancora non pensato. Un simile carico nel distinguersi perpetuamente tanto dall’occidente quanto dall’oriente, determina molto del pensiero ebraico, che similmente si scarica tornando alla rivelazione (Torah) che deve ancora essere svelata.

Heidegger ovviamente nega che questo suo pensiero sia influenzato dalla tradizione ebraica. Egli sostiene di essere ispirato dall’“impensato” della tradizione greca presocratica. Più plausibilmente, è stata la tradizione romantica germanica, in particolare Hölderlin e Schelling, a influenzare i suoi allontanamenti della tradizione filosofica moderna. In ogni caso non intendo suggerire l’influenza ebraica, piuttosto intendo richiamare all’attenzione la significativa confluenza tra il pensiero di Heidegger e strutture salienti del pensiero ebraico che, come abbiamo visto, è stata notata anche da teologi ebrei e studiosi del pensiero ebraico. Infatti, come ha argomentato in maniera avvincente Marlène Zarader, ogni volta che Heidegger si allontana dalla metafisica e dall’epistemologia occidentale, si avvicina all’eredità ebraica, anche se egli stesso non ci ha mai riflettuto fino in fondo. [41] Mentre Zarader aveva ragione nell’esporre e analizzare questo “debito impensato” nel pensiero di Heidegger, il compito odierno è di seguire questo nastro di Möbius in direzione opposta, tracciando non solo gli elementi “ebraici” del pensiero di Heidegger ma anche il farsi heideggeriani di prominenti filoni ebraici moderni.

I punti di convergenza ad ampio raggio enumerati sopra si riuniscono sotto l’elemento biblico più importante del pensiero di Heidegger, il modo in cui l’essere “richiede”, “chiama in causa” e reclama una “risposta”. John Capito riassume il punto:
Il compito del pensiero [per Heidegger] è di rispondere e reagire alla chiamata in causa dell’essere, ascoltare la l’appello ed essere comprensivo e reattivo, lasciare che l’essere sia, lasciare che diventi parole nel linguaggio. Questo linguaggio non è il nostro ma la Sprache propria dell’essere, come anche la storia non è precisamente storia umana ma storia propria dell’essere, dato che l’essere sarebbe nostro come noi saremmo il popolo dell’essere […]. Questo discorso è preso in prestito dalla storia della salvezza di tradizione biblica, dalle religioni del Libro che sono messe in moto dallo Shemà, il comando sacro o chiamata: “Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno” (Dt. 6:4). Un comando che definisce e identifica un popolo sacro: un Dio, un popolo, un posto. Heidegger usa la struttura di questa chiamata-e-risposta per inquadrare la sua lettura dei testi dei filosofi greci che non hanno la minima idea di una storia della salvezza. [42]
Quando, nel 1933 a Berlino, Alexander Altmann suggeriva, con un articolo titolato “Cos’è la teologia ebraica?”, che “i momenti esistenziali addotti da Heidegger di «eredità» [Erbe] e «destino» [Schicksal] potrebbero rivelarsi decisivi per una comprensione dell’esistenza ebraica”, completava il suo commento notando che “queste strutture, comunque, non sono molto adeguate al fenomeno singolare dell’esistenza ebraica nel caso vengano intese come puri enti immanenti”. Egli quindi continuava:
Piuttosto, nel caso ebraico questi concetti [di eredità e destino] mostrano una cosciente inclinazione verso il momento trascendente della rivelazione divina. È caratteristica del popolo ebraico di essere cosciente della propria eredità tanto quanto del proprio destino, credendo di essere sempre oggetto di una nuova chiamata da parte di Dio nel corso della storia. Israele si trova di nuovo e ripetutamente di fronte all’inestirpabile datità della sua eredità spirituale che esso deve in qualche maniera governare e incorporare in maniera soddisfacente. Questa è l’attualità del “Ascolta Israele”. [43]
È come se Altmann avesse capito come i concetti di Heidegger potessero essere modificati, o forse semplicemente seguiti, se la “trascendenza” potesse in qualche modo essere compresa come essere del mondo, in modo da gettare luce sull’autocomprensione ebraica. In questo caso, l’accumulazione di giudeo-heideggerismi potrebbe riunire le proprie manifestazioni in un solo punto sulla terra. “L’ironia è”, nota Caputo, che quando Heidegger porta a termine il suo rifacimento globale della storia della salvezza biblica in termini di storia dell’essere, “sembra che atterri, purtroppo (per lui), proprio in terra santa, proprio sul suolo ebraico, magari da qualche parte in Cisgiordania, riproducendo le dinamiche dello Shemà, della chiamata e della risposta, attorno a cui è strutturata la storia della salvezza ebraica”. [44]

L’“ironia della storia intellettuale” distinta in prima battuta da Rosenzweig assume quindi un carattere di presentimento, svelando non solo gli elementi ebraici impensati del pensiero di Heidegger ma anche l’“heideggerismo” impensato di molto pensiero ebraico. Sottolineo ancora che in nessuno dei casi, in nessuno dei capi del nastro di Möbius, si tratta di una questione di “influenza”, anche se ci sono, qui e là, evidenti punti di contatto e senza alcun dubbio altri incroci sotterranei, spesso difficili da documentare.


SEGNAVIA

L’esempio odierno più significativo, al tempo stesso il più illuminante del farsi-heideggeriano del pensiero ebraico e finora il più nascosto, è senza dubbio quello del luogo dell’essere. Negli anni ’30, mentre scriveva i Quaderni neri e dipingeva, infangandoli, gli ebrei come metafisicamente sradicati, Heidegger predicò ampiamente sulla “Heimat” o patria dell’essere. È importante notare come e perché Heidegger distinguesse la sua posizione da quella dei nazionalsocialisti per i quali la patria è il luogo geografico di nascita della razza ariana, anche se simpatizzava per loro su alcuni aspetti cruciali. Per Heidegger i nazionalsocialisti erano troppo “ontici” o “legati alle cose” nella loro concezione di luogo: confondevano la patria con una regione del globo dove è posizionata la nazione. Ma la patria non è un punto sul globo. È piuttosto un luogo dove si verifica la vicinanza all’essere. Proprio come il concetto di razza dei nazionalsocialisti è troppo ontico ed essenzializzato nella sua determinazione biologica del popolo, portando anch’esso a un fraintendimento della patria come cosa spaziale. In entrambi i casi i nazionalsocialisti a ragione contestavano le concezioni astratte liberali di popolo e luogo, dato che popolo e luogo non sono astratti, universali e omogenei; sono piuttosto modi specifici, dinamici e storici dell’essere. In entrambi i casi, però, il nazionalsocialismo cade in una forma di idolatria ontologica scambiando i fenomeni di popolo e luogo per esseri particolari (la razza ariana e la madrepatria) piuttosto che modi di risiedere in prossimità dell’essere. [45]

Heidegger era allo stesso tempo un critico e un sostenitore del nazionalsocialismo. Ne era critico perché vedeva l’ideologia nazista come un tipo di idolatria ontologica che confondeva il “mondo comune” del Volk e il nostro essere piazzati tra cose ontiche. Nonostante questa volgarità ideologica, egli era un sostenitore del nazismo perché simpatizzava col tentativo di sostituire le astrazioni del liberalismo e dell’umanesimo con fenomeni concreti e storici — specificamente quelli del popolo tedesco, della sua lingua, del suo spirito, del suo destino, della sua patria — attraverso i quali l’essere si rivela e parla esso stesso. Estendendo l’analogia dell’idolatria, è come se Heidegger pensasse che il Partito nazista stesse adorando il Dio giusto (un’esperienza concreta dell’Essere) ma nella maniera sbagliata, mentre i liberali, gli umanisti, i cosmopoliti, i bolscevichi e soprattutto “l’Ebraismo mondiale sradicato” avessero, usando la terminologia di Geremia, scambiato l’Essere con un vuoto vano e la sua Gloria con la futilità (Ger 2:11). La loro nozione di luogo implica una concezione omogenea dello spazio; la loro nozione di con-Esserci consiste in una somma di individui visti nella loro astratta universalità; in quanto tali non si preoccupano essi stessi di questi enti nel loro essere, avendo scambiato l’Essere per vane astrazioni e i suoi accordi fondamentali per futili calcoli. Se i nazisti erano idolatri, nel loro modo volgare, ontico, Heidegger pensava che stessero sbagliando con l’Essere, non con le vuote astrazioni di esso.

Come critico filosofico del nazionalsocialismo Heidegger, sostenne che la patria è un luogo dove ci si può avvicinare all’irrappresentabilità dell’essere senza mai arrivarci. In altre parole, per Heidegger la patria è sempre una terra promessa, non una terra che può essere acquisita. Il luogo in cui stiamo concretamente non è un posto che possa essere occupato. Per ragioni simili, Rosenzweig rifiutava il sionismo, come ebbe a scrivere:
La terra è [del popolo ebraico], nel senso più profondo, proprio soltanto come terra della sua nostalgia, come terra santa. E per questo, diversamente, ancora un volta, da quanto accade agli altri popoli della terra, la piena proprietà della sua terra gli viene contestata, egli stesso è soltanto uno straniero ed un meteco sulla sua terra. «Mia è la terra», Dio gli dice, e la santità della terra sottrae il paese alla sua spregiudicata presa di possesso, finché poteva ancora impossessarsene; essa accresce all’infinito la sua nostalgia della terra perduta e di conseguenza non gli permette di sentirsi mai più totalmente a casa propria in nessun’altra terra. [46]
Come Rosenzweig, ma col vantaggio di un crudele senno di poi, Lévinas comprese le tentazioni idolatriche del luogo e conseguentemente si espresse per un ebraismo le cui radici fossero più profonde della terra, spezzando l’attaccamento al luogo e rispondendo al delocalizzato, “la vedova, l’orfano e lo straniero”. Nel 1961, a seguito del lancio del primo uomo nello spazio, Lévinas scrisse un breve saggio intitolato “Heidegger, Gagarin e Noi”. Mentre Heidegger vedeva il mondo come divorato e disorientato dalla tecnica, in cui tutto era manipolato, Gagarin mostrava un’altra faccia della tecnologia. Per Lévinas, l’ora passata da Gagarin nello spazio simboleggiava la capacità umana di liberarsi dall’attaccamento al luogo. In opposizione all’argomento di Heidegger della primordialità del senso del luogo e del radicamento, Lévinas sosteneva che possiamo e dobbiamo liberare la nostra considerazione dell’umano precisamente da una concezione di questo genere. L’attaccamento al luogo “è la divisione dell’umanità tra nativi e stranieri” e in quanto tale è “la fonte di ogni crudeltà”. Per questa ragione, continuava Lévinas, “la tecnica è meno pericolosa degli spiriti del Luogo”, dato che “elimina i privilegi del radicamento”. [47] Sarah Hammerschlag chiama questa di Lévinas “etica dello sradicamento”, il che in qualche misura ne spiega la ricezione lenta e inizialmente ostile in Israele. Contro Heidegger, e contro le teologie ebraiche del radicamento alla terra, Lévinas affermava il genio della Diaspora. “Il giudaismo è sempre stato libero per quel che riguarda il luogo”, diceva, “La Bibbia conosce solo una Terra Santa, una terra favolosa che allontana le ingiustizie, una terra in cui non si possono mettere radici senza talune condizioni”. [48] Tale è la profonda ambivalenza di Lévinas nei confronti del sionismo, dedito al “destino etico” storico del popolo ebraico e allo stesso tempo profondamente sospettoso verso la sua territorializzazione, ed entrambe le cose per ragioni heideggeriane.

Ma altri filoni non meno influenti del pensiero ebraico moderno hanno preso la direzione opposta. Nel corso della loro “riterritorializzazione” sull’antica terra santa, essi mostrano ulteriori segni del farsi-heideggeriani di prominenti rappresentanti del pensiero ebraico moderno. Questo specialmente da metà anni ’70, quando emerse una divisione tra sionismo religioso e teologia del sionismo. Il primo, come abbiamo visto nel caso di Soloveitchik, afferma il significato religioso dello stabilirsi in una terra all’interno di un programma religioso che cerca di attualizzare l’obiettività della realtà halakhaica nel suo complesso, un compito in cui lo stabilirsi sulla terra gioca un ruolo minore. [49] Per contro, secondo le teologie del sionismo, come esemplificato dal movimento Gush Emunim (Blocco dei Fedeli) sorto a metà degli anni ’70, l’atto dello stabilirsi ottiene una posizione elementare o “esistenziale” tanto quanto quello della rivelazione (Torah) o dell’appartenenza a un popolo, diventando quindi elemento determinante per tutte le altre dottrine e valori. Nei fatti queste teologie del sionismo sono sorte sulle basi di una critica dell’“Ebraismo mondiale” simile a quella cui giunge Heidegger, cioè che il suo sradicamento abbia prodotto modi inautentici dell’essere (teologicamente) ebraico e che solo ri-radicando l’esistenza teologica ebraica il giudaismo consegue il proprio destino fondamentalmente messianico. Come sostenuto da un’entusiasta durante i formativi anni ’70: “Non ci si può accontentare di studiare il Talmud, si deve andare alla terra. Là, specialmente là, la coscienza religiosa sarà rivelata, la sacralità sarà svelata. Là, non meno che in una yeshiva, si trova la verità ebraica. [50]

A dire il vero, la critica della diaspora ebraica come spiritualmente castrata a causa del suo sradicamento è merce immagazzinata ai tempi del vecchio sionismo laico. Né Heidegger né il Gush Emunim l’hanno inventata. Il punto, comunque, è che sia Heidegger sia il Gush Emunim danno a questa critica un’interpretazione filosofica (ontologica o teologica) che la pone nella Seinsgeschichte o nella Heilsgeschichte. Questo cambia tutto. Poiché ora lo sradicamento ebraico è sintomo dei mali dell’epoca e superare lo sradicamento diventa il modo per tornare all’accesso al Luogo.

La prova cumulativa di un nesso tra pensiero “ebraico” e “heideggeriano” è consacrata nel momento in cui si ricorda che l’originaria, primordiale, estasi del Tempo come Essere e dell’Essere come Tempo era già “concretizzata” o, se si preferisce, incarnata nello stesso Nome di Dio, in cui YHWH codifica le temporalità del passato [hyh], presente [hwh] e futuro [yhyh]. [51] A favore di questo, come abbiamo visto, crescono altri elementi prominenti di una fenomenologia che si raccoglie attorno a questo nome sacro, cancellato: la priorità ontologica del “noi” rispetto all’“io” e della pratica pre-riflessiva rispetto alla legge formalizzabile; la co-storicizzazione del destino autentico attuata tramite l’appropriazione di un’eredità in un nuovo contesto storico; la presenza non strumentale e non rappresentativa di parole che portano traccia del nome sacro; il carattere profetico del pensiero poetico; il compito interpretativo del pensiero in relazione a una verità originaria che è ancora in dispiegamento; una visione della verità come evento disvelante che nasconde se stesso; una storia sacra che trova la sua strada insieme a filosofia e religione, occidentalismo e orientalismo e al contempo se ne distingue.

L’affinità elettiva di un debito reciproco impensato che collega Heidegger e il pensiero ebraico giunge a un punto cruciale nella presentazione dell’unico nome al popolo eletto nel suo Luogo appropriato. Una chiamata fatta nella sacra lingua ebraica, la Torah originaria che continua a rivelarsi, indirizzata a un popolo scelto che ora ritorna alla sua terra promessa. Una chiamata, un popolo, un luogo. [52] Il percorso di Heidegger, come il percorso di certi teologi di Sion, raccoglie un popolo unico a stare in una terra unica, facendo sì che la sacra lingua parli in prossimità delle manifestazioni o delle rivelazioni di Dio/Essere-come-tempo. Non si dovrebbe semplificare troppo considerando il pensiero di Heidegger pienamente antisemita, come se Heidegger non sia stato anche pioniere della critica alle idolatrie ontiche come il biologismo e il territorialismo. Piuttosto, risulta che il suo pensiero si spacca, tramite un abisso largo quanto un capello, in una critica del nazionalsocialismo, del razzismo e del territorialismo e in un’adozione di idee che con essi collaborano. Il suo pensiero, come la fede teologica che non può essere permanentemente messa al sicuro o immunizzata dall’idolatria, è contaminato dall’impossibilità che questa fessura diventi una separazione sicura, rigida. Queste forme di teologia ebraica contemporanea che seguono il percorso di Heidegger, anche senza conoscerlo — così come il percorso di Heidegger si fa strada attraverso il pensiero ebraico senza che lui neppure lo sospettasse — si trovano oggi in questo abisso interno ad uno dei grandi filosofi della nostra era.

Heidegger è probabilmente il più importante filosofo europeo degli ultimi cento anni; la sua posterità è assicurata e egli non può semplicemente essere scaricato come un antisemita. È anche il filosofo che, nonostante se stesso e nonostante la gloria dell’ebraismo, offre il miglior sostegno per un’articolazione filosofica di molto di ciò che è profondo, impellente e distintivo nell’esperienza della teologia ebraica. Lo “scandalo” dell’antisemitismo di Heidegger, basato com’è sulla sua visione dello sradicamento metafisico dell’Ebraismo mondiale, non richiede facili indignazioni per questi errori “imperdonabili” ma esige un confronto con l’abisso interno al pensiero ebraico. Il radicamento della teologia ebraica in una terra santa è il “grande pensiero” in cui noi ebrei vaghiamo oggi.


[1] Sono debitore a Elliot Wolfson per aver trovato il nocciolo di ciò di cui intendo parlare qui, nel testo di John Brown di Bob Dylan, cfr. http://religiondispatches.org/whatdoes-heideggers-anti-semitism-mean-for-jewish-philosophy/

[2] In inglese croocked ha il doppio significato di ‘disonesto’ e ‘contorto’. (NdT)

[3] M. Heidegger, Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), GA 96, Klostermann, Frankfurt am Main 2014. Nel corpo del testo, tra parentesi tonde, GA 96 seguito dal numero di pagina.

[4] Nella stampa americana, si vedano per esempio le diverse reazioni di J. Rothman, “Is Heidegger Contaminated by Nazism?” New Yorker April 28, 2014, http://www.newyorker.com/books/page-turner/is-heidegger-contaminated-bynazism; R. Wolin, “National Socialism, World Jewry, and the History of Being: Heidegger’s Black Notebooks,” Jewish Review of Books Summer 2014, http://jewishreviewofbooks.com/articles/993/national-socialism-world-jewry-andthe-history-of-being-heideggers-black-notebooks/#comments; M. Marder, “A Fight for the Right to Read Heidegger,” New York Times Opinion Pages, The Stone, at http://opinionator.blogs.nytimes.com/2014/07/20/a-fight-for-the-right-to-readheidegger/?_php=true&_type=blogs&_r=0. Se possibile anche: G. Fried, “The King is Dead: Heidegger’s “Black Notebooks,” Los Angeles Review of Books, Sept. 13, 2104; P.E. Gordon, “Heidegger in Black,” New York Review of Books October 9, 2014.

[5] Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, trad. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976, § 35. Questo punto è sottolineato da I. Faren in “A Philosophical Review of Heidegger’s Black Notebooks,” presentazione all’Heidegger Forschungsgruppe meeting, Meßkirch, maggio 2014.

[6] K. Jaspers, Philosophische Autobiographie, Piper, Munich 1977, p. 101, citato da Th. Sheehan, “Everyone has to Tell the Truth»: Heidegger and the Jews”, Continuum I: 1 (1990), 30-44, at 35.

[7] Punto colto anche da Faren. Vedi nota 5.

[8] M. Heidegger, Nature, History, State, 1933-34, trad. inglese e cura di G. Fried e R. Polt (Bloomsbury, London 2013), p. 56 passim.

[9] Heidegger mette in guardia dal Verjudung “in senso lato e in senso stretto” in una lettera di accompagnamento a una raccomandazione per Eduard Baumgarten, datata 2 ottobre 1929. Il testo è presentato da Ulrich Sieg, “Die Verjudung des deutschen Geistes”, Die Zeit, 22 dicembre 1989, http://www.zeit.de/1989/52/die-verjudung-desdeutschen-geistes; una traduzione in inglese con commento può essere trovata in Sheehan (vedi nota 6). Nel 1929 era d’uso comune il termine denigratorio Verjudung (giudaizzazione), come dimostrato da S. Aschheim in “«The Jew Within»: The Myth of Judaization in Germany,” in The Jewish Response to German Culture, a cura di J. Reinharz e W. Schatzberg , University Press of New England, Boston 1985, pp. 212-24.

[10] Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., §59.

[11] Cfr. R. Wolin, Heidegger’s Children: Hannah Arendt, Karl Löwith, Hans Jonas, and Herbert Marcuse, Princeton University Press, Princeton 2001 e S. Fleischaker (a cura di), Heidegger’s Jewish Followers: Essays on Hannah Arendt, Leo Strauss, Hans Jonas, and Emmanuel Lévinas, Duquesne University Press, Pittsburgh 2008.

[12] F. Rosenzweig “Transposed Fronts” in Philosophical and Theological Writings, a cura di P.W. Franks e M. Morgan, Hackett Publishing Co., Indianapolis 2000, p. 150.

[13] F. Rosenzweig, La stella della redenzione, a cura di G. Bonola, Marietti, Casale Monferrato 1985, p. 20. L’interesse di Rosenzweig e Heidegger per lo status filosofico delle esperienze concrete putativamente non razionali era caratteristico del periodo. È rimasto un interesse centrale della ricerca fenomenologica, per esempio nel lavoro di Merleau-Ponty, Henry e Marion ed è recentemente riaffiorato nella filosofia analitica nei dibattiti sul “contenuto non-concettuale”. [14] K. Löwith, “M. Heidegger and F. Rosenzweig, or Temporality and Eternity”, Philosophy and Phenomenological Research, 3:1 (1942), pp. 53-77 [del saggio esiste una traduzione italiana, condotta da E. Greblo e Michela Pelloni sull’originale tedesco. La versione italiana, “M. Heidegger e F. Rosenzweig. Poscritto a Essere e tempo”, è apparsa sulla rivista aut aut, n. 222, 1987, pp. 76-102. NdC]. Si veda anche la discussion di Franks e Morgan, pp. 140-45, in Rosenzweig’s Philosophical and Theological Writings (nota 11).

[15] P.E. Gordon, Rosenzweig and Heidegger. Between Judaism and German Philosophy, University of California Press, Berkeley 2003, pp. 189-205. Nel paragrafo finale del suo articolo Löwith allude brevemente alla nozione di “istante eterno” di Kierkegaard, solo per respingere una tale interpretazione di Rosenzweig. Gordon dimostra come la temporalizzazione dell’eternità lavora nel pensiero di Rosenzweig in virtù della vita storico-liturgica del popolo.

[16] E. Lévinas, Carnets de captivité et autres inédits, a cura di R. Calin e Catherine Chalier, Bernard Grasset/IMEC, Paris 2009, p. 75.

[17] Cfr. E. Lévinas, “Being Jewish [1947],” traduzione Mary Beth Mader, Continental Philosophy Review, 40 (2006), pp. 205-210.

[18] Rispettivamente: A. Altmann, “What is Jewish Theology? [1933],” in Id., The Meaning of Jewish Existence: Theological Essays, 1930-1939, a cura di A. Ivry, Brandeis University Press, Boston 1991, p. 42.; M. Heidegger, Essere e tempo, cit., § 10, pp. 72-73.

[19] H.-J. Schoeps, Jüdischer Glaube in dieser Zeit. Prolegomena zur Grundlegung einer systematischen Theologie des Judentums, Jüdischer Verlag, Berlin 1932.

[20] La critica di Schoeps richiama quella di Gershom Scholem, “Offener Brief an den Verfasser der Schrift Jüdischer Glaube in dieser Zeit”, Bayerische Israelitische Gemeindezeitung, 15 August 1932, pp. 241-44, Riportato in G. Scholem, Briefe I, 1914-1947, a cura di Itta Shedletzky, C. H. Beck, Munich 2000.

[21] A. Altmann, The Meaning of Jewish Existence, cit., pp. 47-48.

[22] Ivi, p. 54.

[23] Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., §74.

[24] P. Mendes-Flohr fornisce un resoconto bello e chiaro della vita e del carattere di Altamann in “Introduction: Theologian Before the Abyss”, in The Meaning of Jewish Existence, cit., tavv. XIII-XLVII.

[25] A. Altmann, The Meaning of Jewish Existence, cit., p. 112.

[26] Ivi, p. 115.

[27] Ivi, p. 100.

[28] Ivi, p. 48. La versione di Rosenzweig dell’antiformalismo nella vita della legge ebraica è simile. Anch’essa sostiene l’indeterminatezza della legge e della tradizione ebraica, sulla base della priorità della relazione di alleanza tra il popolo e la Torah sopra tutti gli altri elementi della teologia ebraica. Si veda, in particolare, il classico di Rosenzweig del 1923 “The Builders,” in On Jewish Learning, a cura di Nahum N. Glatzer, Schocken, New York 1965, pp. 72-92, scritto in risposta al rifiuto teologico dell’halakhah di Martin Buber, quindi in una posizione simile alla difesa dell’halakhah di Altmann in risposta a Schoeps. Altmann ha apprezzato l’articolo di Rosenzweig, il che ha probabilmente influenzato la sua critica di Schoeps, la cui posizione è comparabile a quella di Buber. Si noti che la posizione difesa da Resenzweig e Altmann secondo la quale l’halakhah è basata sulla vita del popolo piuttosto che su derivazioni formali esegetiche, su leggi espresse da individui autorevoli o principi teologici dogmatici, è sostanziata dagli storici dell’halakhah da decenni. Per uno sguardo di insieme si veda L. Kaplan, “Kashrut and Kugel: Franz Rosenzweig’s «The Builders»”, Jewish Review of Books, Winter 2014, pp. 41-43.

[29] A. Altmann, The Meaning of Jewish Existence, cit., p. 48.

[30] Ivi, p. 48.

[31] Ivi, p. 115.

[32] Più moderato di Heidegger, Altmann considerava le caratteristiche universalistiche della teologia ebraica valide e vincolanti, anche se erano derivative della non universalità dell’esistenza teologica ebraica. Nella mia lettura, Heidegger difende una visione analoga in Essere e tempo rispetto alla distinzione tra Vorhandensein e Zuhandensein. Altmann sostiene la sua tesi alludendo alla distinzione tra metaphysica generalis e metaphysica specialis, dicendo che la “speciale teologia [ebraica] (attraverso la quale comprendiamo l’insegnamento filosofico su Dio, la sua natura e il suo regno)” non è inconciliabile con “le idee universali contenute nell’ebraismo” (A. Altmann, The Meaning of Jewish Existence, cit., p. 49). Per una elaborazione successiva di un aspetto dell’universalismo che Altmann trovava compatibile con il particolarismo ebraico, si veda A. Altmann, “«Homo Imago Dei» in Jewish and Christian Theology”, The Journal of Religion, 48:3, 1968, pp. 235-259. Invece, dal 1929 si intensificò pesantemente il disdegno di Heidegger per i regni “differenziali” dell’esistenza come “la conoscenza oggettiva”, “la moralità” e “la cultura”.

[33] J.B. Soloveitchik, Halakhic Man, trad. inglese di L. Kaplan, The Jewish Publication Society, Philadelphia 1983, p. 141 [originale ebraico, 1944].

[34] J.B. Soloveitchik, The Rav Speaks: Five Addresses on Israel, History, and the Jewish People, Judaica Press, n.p 2002.

[35] Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., §§ 74-75.

[36] Si noti che Soloveitchik non pensava che il destino spirituale del popolo ebraico si potesse manifestare solo nella forma di uno stato fondato nella sua antica terra. Egli nota che c’è “una terza via halakhaica” tra antisionismo e sionismo religioso, una terza via che è “sicuramente incline allo Stato… ma non [gli] dà valore eccessivo”; J.B. Soloveitchik, Community, Covenant, and Commitment: Selected Letters and Communications, a cura di N. Helfgot, Ktav, n.p. 2005, pp. 163-64. Non di meno Soloveitchik sostenne che certe leggi ebraiche, soprattutto il comandamento di stabilirsi nella terra, possono essere rispettate solo sul suolo di Israele, aggiungendo la propria convinzione che tali comandamenti hanno bisogno di una sovranità ebraica. La questione di una più dettagliata affinità tra Heidegger e Soloveitchik richiede ulteriori approfondimenti. Da un lato Soloveitchik mantiene l’obiettività halakhaica della tradizione lituana ed è critico nei confronti delle forme di religiosità romantiche e soggettive; dall’altro carica l’ebraismo halakhaico di un pathos fenomenologico-esistenziale che è inseparabile dal suo destino storico-collettivistico. D. Schwartz, Religion or Halakhah: The Philosophy of Rabbi Joseph B. Soloveitchik, Brill, Leiden 2007, suggerisce anche che “il concetto di essere nel pensiero di Heidegger, per esempio, è realmente significativo per R. Soloveitchik” (p. 178). Possiamo notare anche che uno studente di Soloveitchik, l’importante teologo ebreo ortodosso Michael Wyschogrod, scrisse “il primo studio su Heidegger in inglese”, Kierkegaard and Heidegger: The Ontology of Existence, The Humanities Press, New York 1954. La sua opera teologica matura, The Body of Faith: God in the People Israel, Jason Aaronson, Northvale N.J 2000, è pervasa dall’influenza di Heidegger. Nel 2010, a seguito del libro di Emmanuel Faye, Wyschogrod difese il valore filosofico del contributo di Heidegger: si veda “Heidegger’s Tragedy”, First Things, Aprile 2010, http://www.firstthings.com/article/2010/04/heideggers-tragedy.

[37] L. Strauss, “An Introduction to Heideggerian Existentialism,” The Rebirth of Classical Political Rationalism, University of Chicago Press, Chicago 1989, pp. 43-44.

[38] M. Heidegger, The Phenomenology of Religious Life, trad. inglese di M. Fritsch e Jennifer Anna Gosetti-Ferencei, Indiana University Press, Bloomington 2004, p. 73.

[39] Leora Batnizky, “Revelation, Language, and Commentary,” in The Cambridge Companion to Modern Jewish Thought, a cura di M.L. Morgan e P.E. Gordon, Cambridge University Press, Cambridge 2007, pp. 302-303.

[40] Nell’intervista citata nella nota 1, Wolfson si riferisce a un suo libro su Heidegger e la Cabala in via di pubblicazione. In “Scepticism and the Philosopher’s Keeping Faith,” Jewish Philosophy for the Twenty First Century: Personal Reflections, a cura di Hava Tirosh Samuelson e A.W. Hughes, Brill, Leiden 2014, pp. 481-515, Wolfson commenta un ampio spettro di temi e strategie comuni a lui, ad Heidegger e all’ermeneutica cabalistica, specialmente alle pagine 500-509. Si veda anche E.R. Wolfson, Giving Beyond the Gift: Apophasis and Overcoming Theomania, Fordham University Press, New York 2014, segnatamente il capitolo 6 passim; Id., Language, Eros, Being: Kabbalistic Hermeneutics and Poetic Imagination, Fordham University Press, New York 2005; Id., “Revealing and Re/veiling Menahem Mendel Schneerson’s Messianic Secret”, Kabbalah: Journal for the Study of Jewish Mystical Texts, 26, 2012, pp. 25-96, segnatamente pp. 35-45; Id., “Nihilating Nonground and the temporal Sway of Becoming: Kabbalistically Envisaging Nothing Beyond Nothing”, Angelaki: Journal of the Theoretical Humanities, 17:3, 2012, pp. 31-45, segnatamente pp. 40-41.

[41] Marlène Zarader, The Unthought Debt: Heidegger and the Hebraic Heritage, trad. inglese di Bettina Bergo, Stanford University Press, Stanford 2006. Per una elaborazione dell’abbozzo fornito sopra delle caratteristiche salienti e peculiari condivise da Heidegger e dal pensiero tradizionale ebraico, si veda lo stimolante libro della Zarader.

[42] J. Caputo, “People of God, People of Being: The Theological Presuppositions of Heidegger’s Path of Thought”, in Appropriating Heidegger, a cura di J.E. Falconer and M.A. Wrathall, Cambridge University Press, Cambridge 2000, p. 88.

[43] A. Altmann, The Meaning of Jewish Existence, cit., pp. 54-55.

[44] J. Caputo, “People of God, People of Being: The Theological Presuppositions of Heidegger’s Path of Thought”, in Appropriating Heidegger, p. 94.

[45] Per una elaborazione di questa differenza si veda J. Phillips, Heidegger’s Volk: Between National Socialism and Poetry, Stanford University Press, Stanford 2005.

[46] F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 321.

[47] E. Lévinas, Difficult Freedom: Essays on Judaism, trad. inglese di S. Hand, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1990, p. 233.

[48] Sarah Hammerschlag, The Figural Jew: Politics and Identity in Postwar French Thought¸ University of Chicago Press, Chicago 2010.

[49] Così i principali rappresentanti rabbinici di questa ortodossia moderna, come Rav Lichtenstein, hanno stabilito che la legge ebraica permette il ritiro o l’abbandono della terra sacra in determinate circostanza, per esempio circostanze politiche.

[50] G. Aran, Kookism: The Roots of Gush Emunim, Jewish Settler’s Sub-Culture, Zionist Theology, Contemporary Messianism [Hebrew], Carmel, Jerusalem 2013, p. 369. La citazione è di un anonimo membro del movimento Gush Emunim, sorto a metà anni ’70 a seguito della Guerra dello Yom Kippur del 1973, riportata dal sociologo israeliano Gideon Aran. Ho deliberatamente scelto una citazione aneddotica per sottolineare che l’affinità tra la teologia del sionismo del Gush Emunim con l’onotologia del luogo heideggeriana richiede un ulteriore approfondimento. La mia ipotesi è che si possa lavorare sulla vicinanza strutturale o formale tra il pensiero di Heidegger e la teologia ebraica che è stata per la prima volta notata, in forma ad hoc, nella Diaspora da autori direttamente associati ad Heidegger (Rosenzweig, Altmann, Lévinas, Soloveitchik, Wyschogrod, Wolfson). Sulla base di questa affinità tra Heidegger e un avvincente maniera di analizzare le caratteristiche distintive della teologia ebraica ortodossa si può esaminare l’ulteriore farsi heideggeriana della teologia ebraica ortodossa nel corso della sua riterritorializzazione nella terra santa, dipinta come un elemento essenziale e costitutivo dell’abitare in prossimità di Dio.

[51] Sull’incarnazionismo della Bibbia Ebraica si veda B.D. Sommer, The Bodies of God and the World of Ancient Israel, Cambridge University Press, Cambridge 2011.

[52] Qui seguo il nastro di Möbius che copre la distanza tra Heidegger e il Giudaismo in direzione contraria, verso Caputo e Zarader. Ecco la formulazione di Caputo del “debito impensato” di Heidegger nei confronti degli ebrei, come espressa da Zarader: “La chiamata è stata espressa in una lingua sacra rivale, non ebraico ma greco, che lascia dietro di sé i suoi testi sacri le cui profondità possono essere esplorate all’infinito. La chiamata è stata rivolta a un popolo scelto rivale, non gli ebrei ma i greci e i loro eredi spirituali, i tedeschi, in una nuova Gerusalemme rivale, non Israele ma il Terzo Reich, con un profeta rivale, non Osea ma, a dire la verità e con la dovuta modestia, Heidegger. Una chiamata, un popolo, un luogo”.


Michael Fagenblat è Senior Research Fellow al Shalem College di Gerusalemme e Adjunct Senior Lecture alla Manash University, dove ha insegnato dal 2003 al 2010 prima di tornare a Gerusalemme. Inoltre ha insegnato alla Hebrew University of Jerusalem e al Al Quds Bard Honors College, Abu Dis. È autore di A Covenant of Creatures: Lévinas's Philosophy of Judaism (Stanford: Stanford University Press, 2010), selezionato per il Premio Goldstein-Goren Miglior Libro sul Pensiero Ebraico 2010-2012. I suoi numerosi articoli sulla fenomenologia, sul pensiero ebraico e sulla teologia politica sono accessibili via academia.edu. Attualmente sta completando una guida critica e l'introduzione a Totality and Infinity di Emmanuel Lévinas per la Edinburgh University Press e sta curando un volume su Negative Theology as Jewish Modernity.




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